venerdì 15 novembre 2013

Due o tre cose che ho imparato andando allo stadio.

L'aquila della Lazio e il lupo della Roma - illustrazione di Giancarlo Caracuzzo
Sono stata a vedere Roma-Sassuolo.
Era la seconda volta che entravo in uno stadio di calcio,  la prima avrò avuto 15 anni.
All'epoca mi proclamavo tifosa del Milan, perchè mi piaceva Gianni Rivera. Lo trovavo elegante, misurato, educato, un signore insomma. Ma di calcio non capivo nulla.
Come non ne capisco nulla, o poco meno, ora.

I colori erano brillanti e saturi, come lo sono nelle giornate piovose: il verde prato, il rosso e il giallo delle sciarpe e delle magliette, un po' di nero e un po' di bianco.
In un angolo c'era la macchia verdebottiglia dei tifosi del Sassuolo, circondati dagli stewards (io avrei detto uomini del servizio d'ordine),  pare che ora si chiamino così. Pochi, davvero, rispetto alle tifoserie nostrane; un po' compatiti, un po' derisi, fino al goal del pareggio, quando, in un impeto di orgoglio, si sono presi la loro rivincita, agitandosi ed esternando la loro soddisfazione.

Mi guardavo intorno: uomini, in maggioranza. Di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali. Dal ragazzotto di borgata all'hipster con,  la barba lunga ed il baffo all'insù,  come va tanto di moda quest'anno. Abituata alle milonghe, dove gli uomini scarseggiano, vedere qualche bel ragazzo che canta Roma Roma Roma con la mano sul cuore fa piacere.

E poi gli incitatori: posizionati nelle curve dello stadio, letteralmente di spalle rispetto alle azioni di gioco, sono quelli che suggeriscono, durante tutto il tempo della partita,  cosa cantare, ripetendo continuamente le strofe dei cori di supporto alla squadra, fino a sgolarsi completamente.
Ma ci sono anche i bambini, e le donne, eh. Poche ma buone. Quando esce il capitano a salutare cantano a squarciagola, quando l'arbitro non concede il rigore tirano fuori il repertorio più creativo di insulti.

Il momento del goal, poi, è davvero liberatorio. Lo stadio (le curve soprattutto) si colorano di bandiere e di canti, sembra venire giù tutto. E tutti quanti si amano nel nome della loro squadra.

Pensavo che questi uomini in pantaloncini riescono a unire tante persone, nel nome di una fede calcistica. Che la fede è proprio un potente aggregante.

E che è bello avere fiducia, affidarsi, essere saldamente persuasi. 

Applicata però alle istituzioni non funziona molto bene, come dice lo storico Mark Mazower.

"Noi abbiamo perso la fede nelle istituzioni e nella loro capacità di plasmare il futuro e di indirizzare la vita quotidiana. Proprio questa fede aveva permesso alle generazioni passate di costruire e tenere in piedi istituti di governo sia nazionali che internazionali. Oggi il loro posto può essere preso dai mercati, dalla Rete o da altre forme di relazioni tra gli umani, o almeno così sperano gli ottimisti. Ma non mi sembra che ne abbiano le potenzialità: nel migliore dei casi, possono essere sostituite da una sorta di expertise manageriale e tecnica".

Per questo si parla tanto del commissario tecnico, Rudy Garcia? :-o












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