domenica 19 gennaio 2014

Non voleva diventare una velina, ma una grande atleta.







L'equilibrista - Giancarlo Caracuzzo
Di lei forse sarebbero state scritte solo due scarne righe su Wikipedia: Era un'atleta somala, nata nel 1991 in una famiglia povera di Mogadiscio.

E andando su Youtube e digitando il suo nome,  Samia Yusuf Omar, si può ancora vederla gareggiare nei 100 metri, snella, le gambe magre, lo sguardo serio, alle Olimpiadi di Pechino del 2008.

Samia, che si nutriva soltanto di riso e cavolo lessato, arrivò ultima, dietro alle muscolosissime e allenate atlete russe e cinesi, ma decise che voleva partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012.

A Londra però non arrivò mai, perdendo la vita nel mare che la divideva da Lampedusa, dopo essersi imbarcata su una di quelle carrette che riservano uno spicchio di speranza a tutti. La sua era quella di potersi allenare e crescere in un Paese che reputava ricco e fortunato.

La sua piccola celebrità è arrivata dopo la morte. Uno scrittore, Giuseppe Catozzella,  ha pubblicato un libro imperniato sulla sua storia, e presto verrà girato anche un film: i muri scrostati della sua scuola, i pesi fatti con le lattine di coca cola riempite di sabbia, l'unico bagno della sua vita alle Olimpiadi di Pechino. 

E poi l'agonia della guerra, la morte del padre, l'oppressione degli integralisti, le soste in semi-prigioni, in attesa che un parente mandi i soldi per fuggire in Europa,  l'ultima terrificante tappa verso la morte.

Samia ora è un po' più famosa.




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